Fiumi e piene Società

La copertura mediatica sulle devastazioni e sui danni provocati dalle piene dei fiumi, il 15 e il 19 ottobre scorsi, dovrebbe sortire il benefico effetto di coinvolgere a più livelli l'attenzione sulle cose da fare per il futuro.

Non esiste provvedimento idoneo ad impedire che un giorno o l'altro piova tanto che i fiumi si ingrossino. Come in tutte le vicende legate agli eventi naturali (terremoti, alluvioni, incendi) ciò che l'uomo può (e deve) mettere in campo è un complesso di attività per prevenire le conseguenze dannose degli eventi naturali e per risolvere in tempi ragionevoli le conseguenze inevitabili.

In questo consiste, sostanzialmente, la “prevenzione e protezione” che la legge impone a vari soggetti pubblici, ma anche ai cittadini privati.

Cominciamo con la prevedibilità delle piene dei fiumi. Non servono i funambolismi dei catastrofisti che, dando la colpa al riscaldamento globale e al saccheggio della foresta amazzonica, sostanzialmente assolvono in anticipo gli sconsiderati che sfidano la natura e poi esigono l'intervento degli altri. Basta leggere le cronache per scoprire, ad esempio, che il Calore allaga Pantano e Ponte Valentino con una frequenza meno che ventennale. Vincenzo Mazzacca (in un libro del 1992, intitolato FIUMI) ricorda la piena del 20 novembre 1770, nonché quelle del 24 luglio 1808, 20 novembre 1809 e 21 settembre 1811, per arrivare al 21 novembre 1851 quando il Calore distrusse il ponte Maria Cristina di Solopaca nonostante che l'architetto progettista Luigi Giura, avendo tenuto conto che il Calore era soggetto ad alte e straordinarie piene”, ne avesse disegnato l'altezza a circa nove metri dal pel di magro”.

La piena del febbraio 1938 (con lutto in alcune famiglie della contrada rurale di Pantano”) è consacrata da un articolo di fratel Nazario Doretti, che nel Collegio De La Salle aveva impiantato un Osservatorio meteorologico, ma è comunque impressa nella memoria dei più anziani di Benevento. La più evocata, in questi giorni, è stata quella del 2 novembre 1949. Dopo una “normale” piena nel 1954, il 19 dicembre 1968 fu dato l'ordine di sgombero per parte del rione Ferrovia. L'acqua era salita a 4 metri e 30 alle 11 di mattina, poi a quasi sei metri alle 13. Alle 16 a Ponte Valentino fu misurata una altezza di sette metri e al nuovo ponte sul Calore a Benevento di otto metri. Alle diciotto fu misurata una portata di 3.500 metri cubi al secondo, valutata superiore a quella del 1949. Ricordo perfettamente la presenza attiva dell'ingegnere Antonio Barone, comandante provinciale dei Vigili del Fuoco. Il quale era stato, con i suoi “uomini”, l'eroe della alluvione del 19 ottobre 1961 (insignito con altri dieci pompieri di medaglia di bronzo al valor civile per essersi lanciati a nuoto per soccorrere famiglie in pericolo di vita).

Altre piene (notevole quella del 25 gennaio 2008) hanno creato preoccupazioni. La costruzione dei nuovi ponti dei semi-abortiti assi interquartieri hanno forse indotto i beneventani a pensare che dalle piene eccezionali siamo comunque difesi. Purtroppo non è così, soprattutto se si ammassano nuove costruzioni in zone già documentalmente colpite (a via Tiengo nel 1949 ci fu anche un morto).

La prima forma di prevenzione è “non dimenticare”. E per non dimenticare c'è un metodo antico: “segnare”. Segnare l'altezza raggiunta dalla alluvione del 15 ottobre 2015 non sarebbe un modo folkloristico di festeggiare le disgrazie. E', invece, la prima informazione che la gente può utilizzare per prendere certe decisioni quando arriva l'allerta meteo.

Fermo restando che il Comune deve dotarsi di un piano generale, che deve essere consegnato ad ogni capofamiglia (con tanto di ricevuta, amici funzionari: a scanso di responsabilità varie), se su ogni fabbricato si mette una targhetta con la indicazione del livello raggiunto dall'acqua in occasione di più alluvioni (o almeno dell'ultima) ogni cittadino è da ritenere “sufficientemente informato” di ciò che può fare e di ciò che assolutamente non deve fare in previsione di una piena. Non sarebbe male mettere a disposizione di progettisti e costruttori modelli edilizi tipo (che so: realizzare fuori terra garage e cantine; e collocare ai piani superiori archivi, centrali energetiche e server per i computer).

Per intanto bisogna fare in modo che a Pantano il Calore non produca più disastri. La prima idea è quella di realizzare dei terrapieni (non muraglioni di cemento) su cui far correre strade di servizio utili anche per far muovere i mezzi di soccorso. Ingabbiare, cioè, uno spazio ampio sufficiente a “tenere” anche la più abbondante piena storicamente registrata, in maniera che riesca a rallentare la forza della corsa sviluppatasi nella “trincea” del tratto cittadino e non invada tutta la piana. Si tratta di “accompagnare” il fiume con la creazione di sponde utilizzabili anche a fini agricoli. Non costerebbe molto creare delle vere e proprie “aree golenali”, bastando ipotizzare una doppia fila di terrapieni. Esistono soluzioni adatte, bisogna prepararle e ricordarsene quando si presentano progetti per utilizzare i fondi europei (non è certo una priorità il rifacimento di marciapiedi).

Per controllare le piene non oso riproporre la diga di Apice, inutilmente prospettata, oltre 40 anni fa, dal senatore Alfonso Tanga. Avrebbe il sapore di una provocazione, considerata la disinvoltura (sorella carnale della disinformazione) con cui si è parlato in questi giorni della diga di Campolattaro.

E già che ci siamo, inviterei i lettori a seguire costantemente le previsioni meteo del TGR Campania delle ore 14. Da anni (avete letto bene: anni), accanto alle temperature previste, il colonnino dei dati della pressione atmosferica insiste con numeri assolutamente inverosimili. Tra Napoli e Avellino il servizio pubblico del TGR (coinvolgendo l'Aeronautica Militare) pubblica una differenza di pressione atmosferica costantemente vicina a 40 millibar (o ettopascal) e comunque sempre superiore a 30. C'è sempre un minimo depressionario su Avellino e già questo è un assurdo. Così come è inverosimile una differenza stazionaria di 30-40 ettopascal in un raggio di circa trenta chilometri. Dovrebbe esserci sempre un uragano, almeno per quanto riguarda la velocità dei venti attivati da una simile situazione barica. Un qualunque sindaco, stando a questi dati, dovrebbe ogni giorno avvertire la popolazione e mettersi in salvo allontanandosi di parecchi chilometri. L'assurdità di certe informazione crea assuefazione. E' come un orologio fermo sulla torre campanaria: lo si guarda, ma si sa che non segna l'ora.

Non pretendiamo di riattivare l'Osservatorio Meteorologico del Collegio La Salle. In anni più recenti era in funzione presso l'Istituto Professionale “Vetrone” una attrezzata stazione meteorologica. E per le frane e l'osservazione dei corsi d'acqua c'era il Marsec, istituto sopravvissuto con qualche aggiustamento anagrafico allo sfascio delle province. Si potrebbe cominciare con un loro collegamento agli uffici degli enti locali. Da qualche parte, comunque, bisogna incominciare.

MARIO PEDICINI

mariopedicini@alice.it

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