Quando le spalle nude facevano scandalo Società

Il marasma ideologico e il furore vituperante della politica italiana odierna pare farci dimenticare quanto accadeva in passato. Il caso di costume politico che vide protagonista il giovane deputato Oscar Luigi Scalfaro resta un esemplare unico. L’allora trentaduenne Scalfaro era da poco entrato in una trattoria romana insieme con gli amici deputati Umberto Sampietro e Vittoria Titomanlio. Ad un tavolo, accompagnata da due suoi amici, sedeva l’avvenente Edith Mingoni Toussan, trent’anni, accompagnata da due suoi amici. Il locale non disponeva certo dell’aria condizionata come avviene di frequente oggi. In preda al caldo, erano grosso modo le ore 15 del 20 luglio 1950, la signora si tolse un corto bolerino rivelando, tra le bretelle dell’abito, le spalle nude. Apriti cielo. Scalfaro, ritenendola un’offesa al comune senso del pudore, alzatosi dal suo posto, attraversò l’intera sala per apostrofare la sventurata: «È uno schifo! Una cosa indegna e abominevole! Lei manca di rispetto al locale e alle persone presenti. Se è vestita a quel modo, è una donna disonesta. Le ordino di rimettere il bolerino!».

L’onorevole Sampietro rincarò la dose: «Lei è una bestia vestita così!», e la Titomanlio aggiunse altre frasi ingiuriose che, essendo una signora, saranno poi dissolte nell’oblio dei successivi verbali. La Mingoni, per nulla lasciatasi intimorire, orgogliosa militante del Msi, rispose per le rime.

Scalfaro intanto, uscito, ne rientrò poco dopo accompagnato da due agenti di pubblica sicurezza che, ammirati dalla signora e confusi dalle leggi, portarono tutti al commissariato.

Accadde il finimondo. La signora Toussan sporse querela. I giornali il giorno seguente si scatenarono e, al già colorito episodio, i cronisti aggiunsero un tocco in più, descrivendo un ceffone, mai dato, di Scalfaro alla signora.

Il 14 novembre lo scandalo si trasformò in dibattito parlamentare. Il ministro competente Scelba, già impegnato in una guerra personale contro i bikini, diplomaticamente si dette assente. La Titomanlio si dichiarò estranea alle ingiurie, Scalfaro invece presa la parola dissertando lungamente e incautamente, definendo la bella Edith una “donna che non è più privata”, coinvolgendo nella foga indirettamente anche il padre, il colonnello dell’aviazione e Grande Ufficiale Mingoni, sessantasette anni, frequentatore dei circoli aristocratici della capitale. Il colonnello, uomo all’antica, lo sfidò a duello. Scalfaro, accampando l’obiezione di coscienza, naturalmente si guardò bene dall’accettare la sfida tanto che si attirò, in una lettera aperta sul quotidiano l’Avanti a lui indirizzata e firmata da Totò, l’accusa, in pratica, di codardia.

Quanto al giudizio in tribunale, non ci fu mai. L’autorizzazione a procedere contro Scalfaro e Sampietro per il reato di ingiurie richiesto il 15 settembre 1951 dal procuratore della Repubblica, restò indovata nei cassetti della commissione parlamentare per le autorizzazioni a procedere, di cui lo stesso Scalfaro era componente, per ben quattro anni, finché un’amnistia non estinse tutto.

Da allora, Scalfaro si guardò bene da ogni forma di eccesso verbale e non verbale.

Strigliando il deputato del Msi, Teodoro Buontempo, detto “er pecora”, dallo scranno di presidente della Camera, tuonerà: «Al presidente non si dice: va’ in malora. Dovremo valutare la necessità di fare corsi serali di educazione parlamentare».

GIANCARLO SCARAMUZZO

giancarloscaramuzzo@libero.it

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