Il torrone nell'epoca del clic Società

Sarebbe in via di estinzione il torrone, assente a pranzi e cene, estraneo al the e al caffè del pomeriggio, gustato solo in tempo di festa. Il drammatico presagio arriva da Cremona in Lombardia, l’unica tra le capitali di produzione che sappia celebrare questo antico dolce ogni anno a novembre con risonanza mondiale. Certo, il torrone non è desiderio quotidiano di nessuno, però al nord mantiene prestigio anche se non rientra nelle diete salutistiche lì quasi sacre, e al sud convive da secoli con le famiglie rimarcando le ricorrenze liete, come i confetti al matrimonio. Perché dunque sarebbe imminente la morte del torrone?

Irrilevante mi pare l’ipotesi che sparirà con l’attuale rivoluzione del gusto dovuta agli ‘chef’, a cui bastano dosi minime di polvere di torrone per sofisticare pesce rosato e sughi di cervo, o per rimodulare pietanze esotiche. Si dice che bisogna aggiornarsi: i torroni non vanno più classificati secondo gli aromi tradizionali ma in base all’abbinamento ‘creativo’ degli ingredienti rigorosamente a vista - sesamo e muesli, pistacchi e paprika, datteri e… ceci - e soprattutto secondo le forme e i colori delle confezioni firmate dai designers. Sarebbe cioè compito della veste, più  che del contenuto, indurci a comprare questo ‘dolce troppo dolce’ che dopo qualche assaggio rimane tutto lì sulla tavola, spreco premeditato. Motivazioni inconsistenti se si considera che il torrone trionfa nelle esposizioni internazionali e richiama folle nelle sagre nostrane, accumulato a pezzettoni sulle bancarelle per inebriare bambini e adulti col suo profumo. “Ma dai - mi dice uno psicologo a cui ho sottoposto la questione -  anche se il torrone fosse uno spreco, comprarlo sarebbe comunque una spesa per la salute, una rivalsa individuale e collettiva, come lo è del resto ogni fuga mentale e fisica dal quotidiano”. E qui lui, coerente, si è appartato per meditare con un torroncino al cioccolato in bocca.

Tuttavia, la grande novità è che nel settore dei torroni è intervenuto il clic, l’acquisto online con le sue modalità di distribuzione a prezzi ridotti, con tanto di scheda descrittiva, fotografie e recensioni. Niente di male, ovviamente, che un corriere ci consegni a casa in pochi giorni il “torrone di Tonara artigianale, prodotto nel cuore della Barbagia, sulle montagne sarde, secondo l’antica ricetta…”, e che possiamo gustare i famosi “torroni morbidi di Spagna” senza dover andare a cercarli ad Alicante e a Jijona, o ad Aguilar in Andalusia. Ma l’acquisto in rete altrettanto ovviamente favorisce la produzione industriale, mentre manca un deciso impegno politico per tutelare i torroni locali del nostro sud e delle isole, che per l’alta qualità dovrebbero costare molto ma che per non morire si devono vendere a poco. Quanti sanno infatti che in Italia l’IGP - indicazione geografica protetta -  l’ha ottenuta finora soltanto il torrone di Bagnara Calabra?

Nasce così, direi, il timore dell’estinzione del torrone, che per fortuna continua a concludere cenoni e pranzi di fine anno, offerto al morso goloso di chi ha denti buoni e a quello arrischiato da chi ha l’età per ricordare i sapori perduti della cupèta ammantata di candida ostia, che a Benevento una settimana prima della festa si preparava nella cucina di casa a seconda delle possibilità economiche - cupèta fina con le comuni nucelle di Avellino sbriciolate, cupèta massizza con le costose mennole tuono, grosse mandorle ovali tostate con tutta la pellicola -  e si mangiava poi un po’ riscaldata, senza sapere che quello era il torrone delle origini, diffuso nel Medioevo tra Medioriente Italia e Spagna dai suoi inventori arabi, corrieri veloci del tempo in cui internet non c’era.                                                   

ELIO GALASSO           

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