Chi guadagna di più paga meno tasse Economia

Diciamo la verità: pagare le tasse non piace a nessuno. Che siate lavoratori dipendenti, liberi professionisti o pensionati, che abbiate in banca pochi risparmi faticosamente sudati o conti correnti dai molti zeri, versare una parte dei vostri guadagni all’erario non è mai qualcosa di gradevole. Senza contare poi che l’Italia, secondo una statistica, è il quinto paese europeo dove si pagano più tasse.
Non c’è da stupirsi quindi se ognuno, potendo, cerca di approfittare di tutte le norme esistenti per alleggerire il carico fiscale che grava sulle sue spalle. Finché si rimane nei limiti del legale e non si evadono le imposte, che male c’è? Nessuno ha mai sofferto di sensi di colpa per aver risparmiato nel pagare le tasse.

Il problema è che, in una società globalizzata come quella odierna, chi opera a livello internazionale a volte può scegliere a proprio piacimento a quale regime fiscale assoggettarsi. E non occorre essere esperti fiscalisti per indovinare che, potendo scegliere, chiunque opterà per la legislazione più favorevole.

Questo riguarda le società che operano nel campo della new economy, le multinazionali dell’informatica come Apple, Microsoft, ma anche imprese i cui prodotti o servizi sono virtuali, ma i cui guadagni sono concreti. Facebook, eBay e tutti i siti internet più popolari e frequentati sono a fini di lucro; e anche se molti ignorano come facciano a generare profitti, quei profitti esistono e, come tali, sono tassabili. Ma da chi?

Se un sito, progettato da ingegneri informatici indiani, con proprietari americani, ha sede su server caraibici e guadagna grazie alle inserzioni pubblicitarie di aziende giapponesi visualizzate da utenti europei, in quale paese dovrà pagare le tasse? È un bel garbuglio, non c’è che dire.

Finora, la regola imperante è stata, nella maggior parte dei casi, quella secondo cui vale la legge del paese nel quale la società ha la sede legale. Ma per aziende che operano in tutto il mondo e per le quali la distanza non ha significato, è facile stabilire la sede legale in nazioni dove la tassazione è minima o inesistente (i celebri paradisi fiscali), anche se non coincide con lo stato in cui si riunisce il consiglio d’amministrazione e meno che mai con quello dove si produce il volume d’affari più consistente.

In America, dove sono sorte le più grandi compagnie che fatturano miliardi grazie alla rete, il Governo ha iniziato a porsi seriamente il problema ed ha portato in tribunale gli amministratori di imprese come Apple, accusando le società di eludere il fisco e chiedendo loro di pagare le tasse laddove i guadagni sono generati. In Europa, nonostante molti paesi abbiano adottato l’euro come moneta unica, le leggi fiscali variano da stato a stato, rendendo la situazione è ancora più complessa. Se l’unione monetaria è stata realizzata, quella economica è ancora debole e quella fiscale è un sogno.

Occorrerebbe uniformare le leggi fiscali, ma sarebbero necessari trattati internazionali ratificati da tutti, anche dai paesi che, grazie ai loro regimi favorevoli, attirano le grandi imprese e ne traggono enormi vantaggi economici. Se le società non hanno interesse a pagare le tasse in nazioni che le spremerebbero come limoni, i paradisi fiscali, che sono perlopiù stati piccoli, privi di risorse naturali e di grosse industrie, danneggerebbero irreparabilmente le loro economie se adottassero regimi fiscali sfavorevoli agli investitori. Ed intanto questo serpente che si morde la coda genera un circolo vizioso nel quale chi guadagna di più ha trovato un modo pratico e pulito per pagare meno tasse.

Saluti dalla plancia,

CARLO DELASSO

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