Serie A 'ridotta': un affare per pochi, una sconfitta per tanti! Sport

Nei miti giorni autunnali tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre di questo 2017 uno dei temi più caldi e dibattuti nel panorama del calcio nostrano è stato, oltre alle imprevedibili ed incerte sorti della nostra Nazionale, in vista degli spareggi da affrontare per raggiungere la Russia ed i suoi mondiali della prossima estate, la riduzione del numero delle squadre partecipanti alla Serie A.

Capofila di questa “battaglia”, a dire il vero più mediatica che politico-calcistica (almeno per il momento), è stato il patron del Napoli Aurelio De Laurentiis che, memore del trionfo della formazione partenopea nel derby del San Paolo, ha così dichiarato pubblicamente:

“…c'è ancora quella mentalità vecchia di 20-30 anni e questa non paga più perché l'Europa è cambiata. C'è un divario tra il calcio europeo e quello italiano. Nel 1986 le squadre in serie A erano 16, poi siamo arrivati a 20. Se fossero ancora 16, con un sola retrocessione, sarebbero tutti più felici e più competitivi. […] E' chiaro che se devo andare a pagare lo scotto di squadre che giocano con i giocatori della serie B e quindi perdono 6-0, questo è un problema”.

Ecco, ciò che viene, almeno a me, spontaneo da pensare è che queste parole non arrecano alcun vantaggio: forse esaltano chi già detiene, come De Laurentiis, il potere nel mondo del calcio, ma non fanno bene, soprattutto, a chi ama questo sport e lo fa indossando non le maglie pluriscudettate delle varie potenze, ma i colori della propria città, a prescindere dalla categoria di appartenenza.

Perché l’appartenenza, appunto, non dipende dai trofei esposti in bacheca o dalla numerosità di gadget venduti a Pechino o a New York.

L’appartenenza si misura con l’amore incondizionato per una squadra che, oltre ad occupare un tassello di una classifica, è emblema, al contempo, di un popolo, di una comunità.

I grandi club già esercitano abbastanza, forse troppa, attrazione sui tifosi di provincia di tutta Italia, da nord a sud. Tali club già giocano un ruolo da “prime donne”, in Lega, in Federazione e, ancor di più, nelle televisioni private che trasmettono in esclusiva le gare del nostro campionato e nei media che gestiscono la gran parte dell’informazione sportiva nazionale.

La gravità di un’impostazione così elitaria di percepire e desiderare il mondo del calcio sta proprio nelle conseguenze che una tale “rivoluzione”, anzi “involuzione”, avrebbe soprattutto sulle nuove generazioni.

Generazioni già scollate da passioni ormai percepite come preistoriche, quelle politiche in primis.

Generazioni che non devono in alcun modo subire questa ulteriore privazione, quella per una passione basata su un rapporto diretto, genuino, fisico con quello che è lo sport più rappresentativo ed il gioco più bello del mondo.

Per non parlare poi del fatto che la riduzione del tavolo delle partecipanti non porterebbe in alcun modo ad una risalita del tasso di competitività del massimo campionato nazionale: anzi, probabilmente ridurrebbe questa competizione, facendo sì che, a quel tavolo, siedano e decidano sempre “i soliti noti”. Inoltre, si tratta di una regola matematica, una regola alla base, anche, dell’economia di mercato: quanti meno sono i contendenti, tanto minore è la competizione nel gioco.

La visione dei potenti del pallone, allora, ha forse tutto un altro scopo: far sì che aumenti ancor di più il gap tra le grandi e le piccole realtà, far sì che il tutto si riduca ad un oligopolio al potere, dove non solo a vincere siano sempre gli stessi, bensì sempre gli stessi siano anche gli unici a guadagnare.

Non bisogna arrendersi, in alcun modo, a questo tipo di visione: bisogna sempre dimostrare di avere attaccamento e passione anche per una piccola squadra di provincia, come lo è la nostra.

In fondo i sogni, quelli più belli, sono quelli che all’apparenza sembrano irrealizzabili: sono i sogni che, ad esempio, hanno vissuto due anni fa in Inghilterra (e non solo) i tifosi del Leicester City, una sorta di “provincia” d’oltremanica dove una squadra ha saputo regalare la gloria eterna ad un’intera comunità, ricca d’orgoglio, per aver avuto la meglio del blasone, ma soprattutto dei milioni, delle varie Londra, Manchester, Liverpool.

Il calcio di oggi è un affare e questo si sa, ma non toglieteci la bellezza di poter sapere che, prima o poi, queste favole saranno scritte…di nuovo…ancora!

ANDREA ORLANDO

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